lunedì 16 settembre 2013

BLOODY REVIEW




Bloody Beetroots “HIDE”
Prima questione: si dice Bloody Beetroots al singolare o si dice i Bloody Beetroots al plurale?
La questione è complessa, visto che dietro a questa sigla si cela il dj e producer italiano Sir Bob Cornelius Rifo, from Bassano del Grappa. Nelle foto dei live e dei dj set le facce, anzi i volti mascherati da Venom di solito sono però due, visto che c’è anche il compare Tommy Tea e insomma è un po’ come per i Nine Inch Nails. I Nine Inch Nails, su cui avremo modo di tornare a proposito del nuovo album, sono Trent Reznor, però sono anche un gruppo, se non altro dal vivo e quindi si dice al plurale. Ma per la sigla Bloody Beetroots come si fa? Si usa al singolare o al plurale?
Boh, la prima questione resta in sospeso.

Seconda questione: l’album d’esordio del/dei Bloody Beetroots “Romborama” del 2009 è uno dei dischi più importanti di musica elettronica degli ultimi anni?
Probabilmente sì. La sua attitudine punk mista a un sound electro misco all’house misto a una sana dose di follia rave era qualcosa di davvero sconvolgente e inebriante. Di certo è uno degli album “italiani” più interessanti e originali da molto tempo a questa parte.

Terza e più importante questione: com’è il secondo album, il nuovo “HIDE”?
Bah. La forza dirompente del debutto se n’è andata a puttane, per lasciare spazio a un suono tamarro non proprio convincente. La prima parte del disco in particolare è pessima e fa temere il peggio.
C’è una tamarrata di techno-rock con Tommy Lee che non se pò sentì. I brani più pop sono il tentativo di commercializzare il Bloody Beetroots sound, con risultati ben poco convincenti che oscillano tra una versione di serie B di Calvin Harris (“Chronicles of a Fallen Love”) e un suono house dozzinale da club fighetto di Milano (“Runaway”). A ciò aggiungiamo l’inascoltabile disco-opera “The Furious”, più ridicola che epica, e in “Out of Sight” l’ospitata prestigiosa di un Paul McCartney che si trova a suo agio a cantare sulla base del Sir Rifo come Papa Bergoglio ospite su un disco di Marilyn Manson. Che potrebbe anche essere un’idea…



Che altro, che altro?
Ci sono brani che vorrebbero essere l’imitazione, ma finiscono per suonare come la parodia dei Daft Punk (“Please Baby” con quell’altra mummia, pardon “ospite prestigioso” di Peter Frampton).
Tutto male, allora?
Ho già massacrato questo album brutalmente a sufficienza, quand’ecco che nella seconda parte a sorpresa si riprende, almeno un pochino, almeno a tratti. Quando evita di uscirsene con forzate collaborazioni poco azzeccate, il Rifo torna su sentieri sonori che più gli competono, con un'electro house maggiormente cattivella rispetto ai primi innocui brani, si senta la notevole cavalcata elettronica “Albion with Junior” o la bastarda “The Source”, e gli riesce pure il momento lentone con “Glow in the Dark” cantata da Sam Sparro.
Nel finale le cose precipitano di nuovo e spunta fuori persino una evitabile versione gabber e in English di “Volevo un gatto nero”, trasformata in una truzzata che persino il Gigi D’Agostino dei tempi migliori (o dovrei dire peggiori?) si sarebbe imbarazzato a dare alla luce. È allora che è chiaro, limpido, cristallino. Che si dica Bloody Beetroots al singolare o al plurale questo non l’ho ancora capito, ma che il suo/il loro nuovo album sia una delusione, su questo non ho alcun dubbio.
(voto 5-/10)


1 commento:

  1. Noooooooooo Cannibal, non mi fare così ;)!!!! a me non è dispiaciuto come album, anzi mi sono divertito molto, certo gli inserti rock funzionano poco, ma la loro evoluzione sonora non è male!!!

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